lunedì 15 dicembre 2008

La nuova questione meridionale

di Mimmo Loiero

La manifestazione Centopassi per il Sud liberato dalle mafie, quest'anno, è coincisa con il dibattito nazionale relativo al decreto sicurezza del ministro Maroni. Il collegamento tra le due cose non è solo temporale ma sostanziale. Il paese che "vanta" le quattro organizzazioni criminali più potenti del mondo ('ndrangheta, mafia, camorra e sacra corona unita), non può fare un decreto sulla sicurezza senza parlare di mafie, intese senza alcuna differenza, sia come organizzazioni criminali che sparano sia come organizzazioni criminali che corrompono, riciclano, fanno business e raccolgono voti. Perché la questione delle mafie è anche, e soprattutto, questione di sicurezza. Per quelli che abitano e lavorano al sud come per quelli che abitano e lavorano al nord.

Più che la delinquenza comune, nazionale straniera extracomunitaria o clandestina, le mafie producono insicurezza. Di più. Producono sottomissione paura e terrore in tutti gli strati sociali. A partire dai rappresentanti delle istituzioni e dei poteri legali e democratici. Come hanno imparato, a volte pagando il prezzo del sangue, magistrati, poliziotti e carabinieri, sindaci e assessori, imprenditori, commercianti, preti... fino ai cittadini comuni (anche donne e bambini) uccisi a volte anche solo per sgarro involontario o perché erano sulla linea di tiro dei proiettili.

Ma la questione delle mafie non è solo questione di sicurezza è la nuova (e vecchia) Questione meridionale.

Chi nasce nelle regioni del Sud, impara fin da piccolo, a non reclamare diritti ma solo a chiedere favori, a non guardare e comunque a non vedere le sopraffazioni, le angherie, le ingiustizie e i delitti che avvengono attorno a lui. Impara soprattutto a non denunciare, a non parlare, a non testimoniare, se per caso gli capita la disgrazia di "dover vedere per forza". Impara, se vuole fare impresa, a non crescere, a non progredire, a non tentare nemmeno di espandersi specialmente se opera in certi settori, in certi territori. Impara soprattutto a pagare senza fiatare, a rispondere senza obiezioni alle richieste che gli arrivano. Sopravvive bene se riesce a non aspettare che gli arrivino le richieste ma a intuirle e a comportarsi di conseguenza. Tutto questo per tentare di "non avere guai". La parola guai è un eufemismo che può significare anche perdere la vita e l'azienda.

Contrariamente a quanto qualcuno scrive, questi comportamenti non sono frutto di una "cultura meridionale" ma di paura vera e propria instillata con una dominazione reale che, in certe zone, è veramente assoluta. L'imprenditore calabrese, siciliano, campano, non è più vile, più rinunciatario del suo omologo emiliano o bergamasco. Semmai è cento volte più coraggioso, cento volte più intraprendente. Lo dimostra il semplice fatto che, molto spesso, quando l'imprenditore emiliano o bergamasco viene al sud, magari perché vince un appalto, nonostante possa contare su risorse e assistenza molto più forti dell'imprenditore meridionale, si affretta a pagare, il pizzo, a dare i lavori in subappalto, ad assumere guardiani raccomandati... oppure ad abbandonare baracca e burattini e tornarsene al nord.

Lo ha spiegato, nel forum “Mafie e Sud” alla manifestazione Centopassi per il Sud libero dalle Mafie, Pino Masciari. Già imprenditore calabrese di successo, con forte personalità e coraggio da vendere, Pino Masciari, alla fine degli anni novanta, denunciò non solo le cosche che operavano nel Vibonese, nelle Serre e nel Basso Jonio, ma anche le collusioni che queste avevano con i poteri istituzionali. Pino Masciari mandò in galera, con le sue denunce, "ndranghetisti" e rappresentanti delle istituzioni collusi. In un paese normale avrebbe ricevuto il plauso e la riconoscenza della comunità e delle istituzioni. Non è stato così. Da allora, ha perso l'azienda e vive con la famiglia in regime di protezione "da deportato" al nord dove, però, riceve anche riconoscimenti e cittadinanze onorarie. Al sud nella sua amata Calabria, dove ogni volta che torna rischia la vita, nessun sindaco, nessun politico, di destra di centro e di sinistra, se l'è sentita di sfilare al suo fianco per offrirgli quella solidarietà concreta di tutta la comunità che lo potrebbe proteggere contro la vendetta delle cosche. Cosa è questo se non paura? Paura che però chi ha ricevuto un mandato democratico deve saper superare oppure, come ha suggerito lo stesso Pino Masciari, deve dimettersi.

Il forum “Mafie e Sud” in cui, oltre a Pino Masciari, si sono confrontati Alessio Magro coautore del libro Il sangue dei giusti, Don Mimmo Battaglia fondatore e animatore di comunità terapeutiche, Francesco Condoluci giornalista, Emiliano Morrone e Francesco Saverio Alessio autori del libro La società sparente, è risultato una buona chiave di lettura di questo fenomeno complesso e drammatico. Un fenomeno che ha connotazioni di carattere sociale, politico, culturale, antropologico, religioso, economico, militare perfino.

Le mafie nel dibattito, che nonostante il tempo e le energie dedicate, non poteva che avere solo un carattere introduttivo, sono apparse come la vera "questione meridionale" una questione che parte dal Sud e dalla metà del novecento e come una metastasi si espande fino ai giorni nostri e fino a Duisburg e oltre...

Giovanni Falcone diceva che, come ogni fenomeno umano, la mafia ha avuto un inizio e deve avere una fine. Ma la fine delle mafie è di là da venire proprio perché quello mafioso si propone come un modello, per adesso vincente, di organizzazione di poteri che riescono a pervadere le istituzioni e lo stato. Quello mafioso è un modello produttivo. Una economia di cui solo la parte illegale ha bilanci che sembrano quelli di uno stato.

Le mafie fanno PIL.

Per batterle veramente, hanno concluso i relatori, deve nascere dal basso una nuova comunità, un nuovo modo di produrre e distribuire più attento alla solidarietà, alla natura, ai diritti delle generazioni future. Utopia o ritorno alla polis? Forse un progetto vero.

Alla fine vinceremo noi, recita lo striscione che mostra una schiera di bambini. Metasud lo ha proposto come slogan di un movimento che deve avere ben chiara l'urgenza di una battaglia che non può più attendere, ma anche i tempi lunghi di una rivoluzione delle coscienze che deve partire dai nostri ragazzi. Quei tanti ragazzi che in dodici scuole del comprensorio soveratese hanno lavorato ad una conoscenza del fenomeno mafie, producendo lavori che sono stati esposti una settimana nel municipio di Soverato e che probabilmente faranno parte di una pubblicazione. Quei tanti ragazzi che hanno organizzato i Centopassi come una festa con corteo, mostre, musica e spettacoli, utilizzando la loro vitalità e le loro energie e sono riusciti a raccogliere adesioni vere e non solo presenze a partire dai loro coetanei.

Non si può continuare a vedere la manifestazione dei Centopassi, come una partita allo stadio con le tifoserie schierate da una parte o dall'altra. Non si devono contare le presenze (e le assenze) nel corteo per decidere chi ha vinto e chi ha perso. Le persone che osservano ai margini del corteo, quelli che scuotono la testa, quelli che “cosa ci vengo a fare che tanto la mafia vince sempre...”, non sono nemici da combattere, semmai ostaggi da liberare. Dalla paura, dal dominio, dall'assuefazione a subire tacendo.

Le manifestazioni, quelle vere e non le passerelle celebratorie, sono, soprattutto all'inizio, espressione di minoranze che però portano avanti problemi che riguardano tutti e sui quali non esiste ancora sufficiente consapevolezza neanche nelle istituzioni. Il successo di una manifestazione di questo tipo, non può essere misurato come quello delle stars televisive con il numero dei fans e dei tifosi presenti, ma dalla misura in cui ci si avvicina all'obiettivo che è modificare i comportamenti dei cittadini nei confronti delle mafie a partire dai giovani, dagli uomini nuovi. Farli passare dalla inconsapevolezza del dominio delle mafie, dal silenzio omertoso, dalla indifferenza, dalla emulazione, al rifiuto, alla rivolta, all'affermazione di comportamenti nuovi di libertà e legalità.

Per raggiungere questo obiettivo non basta una manifestazione e neanche due. Le manifestazioni servono ma sono solo un passo. Ce ne vogliono tanti altri. Almeno cento

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