venerdì 7 dicembre 2007

Antipolitico sarà lei e tutta la sua razza!

Antipolitico sarà lei e tutta la sua razza!
In seguito alla manifestazione di Beppe Grillo si moltiplica nei talck-shows la guerra alla cosiddetta antipolitica. Questo articolo l'ho scritto in maggio e pubblicato sul blog The Sordo a giugno. Direi che è attualissimo.
di Mimmo Loiero

Antipolitica! Ecco l'anatema, la maledizione, la scomunica, il nuovo fantasma che in questo ultimo periodo la casta politica italiana ha risvegliato per tentare di mettere una pezza davanti alle vergogne che lentamente si stanno palesando agli occhi dei cittadini. L'anatema dell'antipolitica, sibilato con rabbia nelle interviste e ai talk shows, lanciato con veemenza ai convegni, alle parate e ai congressi di partito, sussurrato sottovoce nelle piccole e grandi stanze dei bottoni, colpisce senza distinzione in basso e in alto a destra e a sinistra. Colpisce il presidente di Confindustria Montezemolo che, pur essendo stato nutrito fin dalla nascita con biberon di denaro pubblico, osa denunciare i fannulloni dei ministeri, colpisce Pippo Callipo che stigmatizza la mafia con la penna in Calabria, colpisce i giovani delle consulte e delle associazioni che sputtanano arroganze e corruzioni di ordinaria follia, colpisce i pochi sindacalisti che, semel in anno, osano mettere in piazza qualche schifezza, e soprattutto colpisce giornalisti come la Gabanelli di Report o Iacona di Pane e politica che fanno inchieste, invece di fare la corte ai potenti.
L'anatema è anche utilizzato in tutt'Italia, dopo la riforma elettorale che stabilisce la dittatura dei vertici, come una minaccia contro le migliaia di militanti residui, ieri espulsi dai partiti e dalla politica perché malpancisti, perché assemblearisti, perché partecipazionisti, perché autonomi, perché antimazzetta e quindi inaffidabili, oggi semplicemente perché non c'è più bisogno di militanti, di quadri, di partecipazione, di confronti ma semplicemente di affiliati.
Antipolitico non è una condanna culturale. Come ogni anatema significa messa all'indice, esclusione, condanna senza appello e senza possibilità di difesa. E non sarebbe neanche una minaccia vuota in una Italia dove la casta politica rappresenta più del 40% del PIL (prodotto interno lordo) e in alcune regioni come la Calabria almeno il 90%. Dove ognuna delle centinaia di migliaia di cariche ed incarichi nelle istituzioni, ognuno dei milioni di posti di lavoro pubblici, parapubblici e paraprivati, ognuno dei miliardi di euro di contributi, forniture, appalti, acquisti sono controllati, spartiti e lottizzati. Dove non c'è settore (scuola, sanità, agricoltura, industria, artigianato, finanza, spettacolo, ambiente, forze armate, polizie, turismo...) che non sia in qualche modo infiltrato e spesso totalmente dominato dalla longa manus della casta politica.
Eppure la condanna oggi sembra un'arma un po' spuntata perché si sta facendo strada nell'opinione pubblica la sensazione che così non si può andare avanti, che non ce lo possiamo più permettere. La sensazione nasce soprattutto dall'impietoso confronto dell'Italia con gli altri paesi europei ed extraeuropei che mostra un paese con un ceto politico numeroso e vorace come un esercito di cavallette, assolutamente incapace di rinnovarsi e riformarsi, incapace persino di porsi il problema. Anche perché è un ceto politico, quello della cosiddetta seconda repubblica, che non ha idealità e valori al di fuori della propria sopravvivenza. Un ceto, o meglio una casta, nata, cresciuta e pasciuta, da una parte sulla fine della guerra fredda, il grande scontro ideologico, culturale ed economico tra USA e URSS e dall'altra sulla sconfitta del sessantotto e dei movimenti radicali della seconda metà del novecento e, infine, sulla sconfitta di Manipulite e dei movimenti giacobini delle città di fine secolo.
Queste sconfitte non si possono comprendere a fondo se non si ha presente il vero potere della casta politica italiana. L’état c'est moi può dire, ben più di Luigi XIV, il ceto politico di questo paese dove non esistono strutture istituzionali autonome, non esiste per esempio una burocrazia con una sua propria dignità e capacità. Il ceto politico in Italia è lo stato, ma è anche la cultura, i trasporti, la comunicazione, l'economia, la giustizia, l'esercito, le mafie... se si considerano le interconnessioni, mediate dal denaro pubblico, dall'occupazione delle cariche, dagli appalti e dai concorsi truccati.
Per capire il potere del ceto politico in economia basta pensare ai conflitti di interessi (quello di Berlusconi è solo il più vistoso) che nessuno dei partiti vuole affrontare davvero, proprio perché malati essi stessi della stessa malattia. Basta pensare alla cosiddetta privatizzazione risoltasi in un colossale mercato delle vacche dove alla fine i patrimoni dello stato sono diventati patrimoni degli amici. Telefoni, ferrovie, energia, industria di stato sono diventati occasioni di affari colossali, tangenti altrettanto colossali e un altrettanto colossale aumento di potere e di influenza non dei partiti che tendono a diventare gusci vuoti. C'è un altro elemento da considerare che spiega molto bene la composizione sociale della "casta" e la corsa a fare il politico. In Italia la politica non dà onore, non dà prestigio, non dà autorevolezza, dà molto poco potere di modificare la realtà, dà invece (molti e subito) soldi, potere di gestione e impunità.
Contro tale potere il lavoro dei magistrati appare veramente inadeguato visto che riescono solo ad iniziare, relativamente pochi procedimenti, che spesso finiscono nel porto delle nebbie o in assoluzioni per scadenza dei termini. Nè comunque indagini, rinvii a giudizio e condanne influiscono sulla "carriera" dei singoli politici se è vero come è vero che nel parlamento siedono decine di condannati definitivi, se è vero come è vero che al consiglio regionale calabrese sono per quasi la metà sotto processo per reati come la corruzione, l'abuso, la collusione mafiosa.
Non c'è speranza quindi?
Al contrario. Oggi, molto più che nei decenni trascorsi, un movimento che si ponga l'obiettivo di un rinnovamento radicale del ceto politico italiano, ha molte probabilità di riuscita. Perché c'è l'Europa, perché non c'è più né l'Unione Sovietica né la Cina di Mao e neanche l'America di Kennedy, perché c'è internet, perché agli italiani comincia a passare anche la "cotta" per Berlusconi.
Ha probabilità purché non si limiti alla denuncia della questione morale, ma elabori e adotti invece un programma di governo per risolvere i problemi più gravi portando una buona dose di innovazione nel paese e purché riesca a fare l'operazione culturale di ribaltare l'accusa di antipolitica.
La parola politica significa governo della città, della comunità, e se c'è qualcosa che si può chiamare antipolitica, è proprio la corruzione, l'interesse privato, l'occupazione abusiva (in quanto non per merito ma per tessera) di cariche pubbliche e posti di lavoro a tutti i livelli, la collusione con le mafie, lo sciupio delle risorse della comunità, l'incuria ed il disinteresse nei confronti dei bisogni dei cittadini...
La politica è uno strumento potentissimo ed efficace, forse il migliore che l'umanità abbia forgiato, per migliorare la vita delle comunità, per progredire, per evitare lo scontro diretto e violento dei bisogni e delle ambizioni individuali e portarli ad una sintesi accettata se non condivisa. E il delitto più grave del ceto politico è stato proprio quello di assassinare il significato della parola politica, stravolgerlo al punto da farlo diventare il contrario.

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